Esplorazione della selvaggia Val Vajont

Un’avventura in una valle remota e aspra, sulle orme di Mauro Corona

Inizio febbraio, le giornate cominciano finalmente ad allungarsi. Mi balza l’idea malsana di ripercorrere una traccia accennata da Mauro Corona nel suo libro “Le Cinque Porte”. Quale miglior compagno potevo scegliere se non Diego per questa esplorazione che ha il sapore selvaggio solo al pensiero. L’obiettivo di oggi è accedere alla remota Val Vajont!
Da non confondere con la Valle del Vajont dove si affacciano i paesi di Erto e Casso. La Valle del Vajont dove ancora rimane un timido laghetto al cospetto del fatidico monte Toc è la, purtroppo, famosa valle che ha impresso nelle nostre menti la tragedia del 9 ottobre del 1963. Più a Nord, prima di arrivare al passo S. Osvaldo, appena superata Erto, sulla destra si insinua una valle angusta, dove il torrente Vajont nasce tra canyon stretti e sinistri: questa è la nostra meta odierna!
Mentre siamo in auto per raggiungere la valle, Diego dopo essersi informato come al solito sull’itinerario che vorremmo affrontare, mi fa salire un po’ di ansia etichettando questa valle come “La valle del Diavolo” per le sue pareti a picco visibili già dalla strada. Non vedo l’ora di partire, ben consapevole che potremmo tornare sui nostri passi ancor prima di cominciare…
Raggiungiamo Longarone, saliamo sui tortuosi tornanti in direzione della diga del Vajont. Casso e poi Erto, fino alla frazione di San Martino con una moderna chiesetta a bordo strada. Poco più avanti, su una curva verso sinistra si può notare una stretta stradina che scende. In corrispondenza di questo bivio, uno spiazzo bordo strada diventa il nostro parcheggio.
Mentre ci prepariamo possiamo già dare uno sguardo verso l’ombrosa val Vajont davanti a noi. La etichetto già “ombrosa” perchè il sole arriva a scaldarci in questa mattinata che è appena sotto lo zero, ma verso l’angusta valle si vede ancora buio e tenebre. Scendiamo sulla via asfaltata che di fatto è la parallela alla strada Statale che solca il versante orografico sinistro del lago del Vajont. Più scendiamo e più la temperatura si abbassa, a lato della strada cominciano a vedersi vere e proprie cascate di ghiaccio. Ora un sottile strato di brina ghiacciata ricopre completamente il manto asfaltato prima dell’imbocco di un breve tunnel. È proprio qui, che alla nostra sinistra, si inerpica una stretta e irta scala (completamente ghiacciata) che indica il sentiero CAI 903 verso la cime del monte Cornet e l’omonima casera. Nessun cenno alla val Vajont o alla Casera Carniar.
Mi allaccio i ramponcini e procediamo sulle scale che ci fanno guadagnare subito del dislivello. Anche al termine delle scalette, l’erba secca che procede in un bosco di faggi mantiene uno strato sdrucciolevole per la spessa brina che la ricopre. In breve arriviamo alla chiesetta di S. Antonio in Therenton in uno splendido balcone naturale con vista su Erto. Qui il bivio con evidente segnaletica CAI con indicazione del vecchio sentiero 901 che porta alla ormai scomparsa Casera Feron. Il percorso è chiaramente segnalato come inagibile, quindi questa relazione non vuole essere in alcun modo un invito a ripercorrere questo itinerario.
La forte e chiara segnaletica ci mette subito in guardia sulle difficoltà che potremmo trovare e rinfranca la definizione di “Valle del Diavolo” coniata da Diego. Procediamo in un sentiero che si stringe sempre di più con fogliame instabile che non permette di capire in modo chiaro dove stiamo mettendo i piedi. I faggi si diradano. Siamo all’ingresso della Val Vajont, possiamo quasi toccare la parete verticale che abbiamo alla nostra destra alla base del monte Zerten. Il torrente impetuoso sotto di noi è quasi silenzioso oltre 200 metri più in basso. Il sentiero cambia il suo volto e diventa una cengia erbosa, esile, sottile, pericolosa. Alla nostra sinistra una parete dritta scappa verso l’alto del monte Cornet, i nostri piedi solcano una traccia non più larga di un metro, a fianco… il nulla: un salto nel vuoto senza appigli verso il turbinoso torrente Vajont visibile anche senza bisogno di sporsi. Procediamo spediti ma attenti ad ogni passo.
Sbuchiamo su un placca rocciosa che si protrae verso un impluvio franoso ampio e scosceso rivolto anch’esso in direzione del torrente. Sulla roccia, prima della frana sassosa, è presente una scritta in rosso “Gefahr”, “Pericolo” in lingua tedesca. Molto probabilmente questa è la difficoltà e la criticità che ha determinato la chiusura dell’intero itinerario da parte del Club Alpino Italiano. Il ghiaione è molto inclinato, non più difficoltoso di molti altri già percorsi. L’unica perplessità è davanti a noi ed è una parete franosa praticamente verticale di 2-3 metri che non ci permette di verificare come procede la traccia. Avvicinandoci, vedo una fettuccia e una corda agganciate ad un albero al culmine della paretina terrosa. Con questi appigli riusciamo a superare agevolmente la problematica. Il sentiero ora continua agevole, in discesa verso il greto del torrente.
Arriviamo così sulle sponde del torrente Vajont, in questo punto calmo e con una portata che occupa solo un terzo del letto. Stiamo per entrare nella immaginaria “Porta Rossa” che Mauro Corona descrive nel suo libro “Le Cinque Porte”. Proprio qui riporta un ricordo d’infanzia dove su questo greto da piccolo andava alla ricerca delle pietre di color fegato, quelle dove la brina non si attaccava. Erano le rocce migliori per poter affilare i coltelli. Anche oggi, in questa giornata molto fredda sono facilmente distinguibili queste particolari pietre. Procediamo in direzione Sud al cospetto delle verticalità del Zerten e del Cornetto.
Rimaniamo attoniti quando troviamo davanti a noi un grosso blocco di ciuffi di pelo grigio scuro strappati a formare quasi un tappeto. I ciuffi di pelo sono strappati di netto visibilmente estratti con un morso chirurgico e molto potente. Poco distante una vera e propria scena di un delitto con rivoli di sangue rappresi, pezzi di ossa, interiora e ancora lo stesso pelo grigio. Non troviamo la carcassa, quindi immaginiamo che la preda sia stata trasportata per essere consumata in un secondo tempo. Il sangue sembra recente, quasi fresco, ma non sappiamo se è stato conservato così bene dalle temperature rigide in questa gola.
Continuiamo in quella che si rivela sempre di più una forra, il sole è ancora un lontano miraggio. Il freddo e l’umido la fanno sempre da padrone. Più avanti intravvediamo qualche tiepido raggio, e aumentiamo il passo per raggiungerli. Il ghiaccio tra gli interstizi di roccia forma delle timide cascatelle immobili e delle più esili stalattiti instabili. Un’ampia ansa verso destra ospita una piccola biforcazione del torrente, la luce filtra e irrora di un giallo paglierino la vegetazione bruna sulle sponde. Il calore ci avvolge per la prima volta nella giornata e ci regala un tepore rigenerante. Ci spostiamo sul versante orografico sinistro del torrente e procediamo ora sul greto, ora sulla balza erbosa che ci accoglie con una traccia del vecchio sentiero oramai quasi completamente cancellato. Ci ritroviamo a vagare tra i due versanti del torrente divertendoci a guadarlo nei punti talvolta più agevoli, altre volte invece affondiamo con l’intero scarpone nelle fresche acque impetuose. In corrispondenza di un grosso masso al centro del greto, un sassone di forma cubica tre metri per tre, alle cui spalle notiamo un muretto a secco che sostiene una parete scoscesa erbosa. Anche dalla cartina a nostra disposizione non notiamo alcun tratto o passaggio in quel punto. Molto probabilmente è stato costruito per agevolare il passaggio del torrente e permettere in passato di far scorrere, magari, dei tronchi da portare a valle. Consultando la cartina per questo particolare, vediamo che il sentiero originale passa da un versante all’altro toccando il greto solo in un paio i punti. Puntiamo quindi alla riscoperta della vecchia traccia. Troviamo qualche accenno della vecchia via, anche se sul versante sinistro sembra sia stata cancellata in modo irrimediabile anche da recenti frane che si susseguono. Vicino ad una di queste fa capolino una singolare orma spaventosa che sembra identificare l’impronta posteriore di un orso. Nessun’altra traccia, solo un’unica orma isolata ma tanto basta per farci sussultare.
Passando al versante orografico destro, invece, troviamo delle evidenti tracce del vecchio sentiero che ci fanno salire e lasciare il greto. Sulle cortecce degli alberi si notano ancora i bollini rossi, un po’ sbiaditi ma ci sono. La traccia è chiara, comoda e procede nella boscaglia di larici facendoci guadagnare un lieve dislivello. Ora guardiamo il torrente dall’alto, ci destreggiamo tra loppe erbose e foliage secco. Impluvi franosi fanno capolino saltuariamente ad interrompere una certa monotonia. Anche crepe rocciose, ricoperte da un sottile strato di ghiaccio fortunatamente facilmente superabili, ci permettono di divertirci in questa progressione non banale ma goduriosa. Il bosco lascia spazio ad una porzione erbosa su pendio inclinato. Arriviamo ad un blocco di ghiaccio che ci sbarra la strada. Un blocco unico imponente che si è formato su due tronchi di legno che dovrebbero aiutare a superare un tratto franato del sentiero con un vuoto di qualche decina di metri sotto. Vediamo che dentro il possente blocco di ghiaccio è presente anche un cordino, ma è inglobato nella massa e di fatto inutilizzabile. Decidiamo quindi di interrompere qui la nostra avventura senza rischiare di superare questo pericoloso ostacolo.
Torniamo sui nostri passi e, buttando l’occhio sulla sinistra, notiamo una traccia appena accennata che scende in un punto dove numerosi alberi dall’esile fusto creano una via di discesa molto ben segnata da bollini rossi, che porta verso il torrente. Scendiamo quindi così nel greto, nuovamente, e notiamo che i segni continuano su grosse rocce che affiancano il corso d’acqua. Proseguiamo in direzione Sud verso la casera Carniar sul greto agevole. Ai lati osserviamo le cascate di ghiaccio più imponenti della giornata: alte, spesse e fragili dove in pochi minuti abbiamo visto piccoli blocchi staccarsi dall’alto senza, per fortuna, colpirci.
È l’una e mezza del pomeriggio, ma nella gola in cui ci troviamo sembra pomeriggio inoltrato. La luce sta per scomparire dietro al Col Nudo. Guardiamo la cartina e vediamo che ci mancano qualche centinaio di metri per raggiungere la casera Carniar, ma la luce potrebbe essere poca al ritorno. Ci fermiamo così per una pausa che ancora non avevamo fatto dall’inizio dell’escursione, e ammiriamo questo paradiso perduto.
Torniamo indietro dalla stessa via di andata, cercando le tracce rimanenti di segnaletica del vecchio sentiero CAI. Nel bosco, una volta lasciato il greto, ci imbattiamo in una roccia possente dove al suo culmine in alto, c’è una croce in ferro battuto molto vecchia. Forse addirittura di inizio secolo. La croce è così particolare che sembra una spada nella roccia: perfettamente infilata nella roccia. Non sono visibili segni di scalpellate o forature. Il blocco roccioso è a pochi passi da una distesa di sassi muschiati disposti in modo regolare, come a formare un perimetro rettangolare. Siamo davanti, molto probabilmente, ad una vecchia casera con il ricordo del suo proprietario.
Troviamo molte tracce che evidenziano diversi guadi del corso d’acqua da parte a parte. Il nostro ultimo obiettivo di giornata è una sorgente segnata sulla cartine Tabacco: “La sorgente dell’acqua Benedetta”. Dovremmo trovarla nel versante orografico destro che abbiamo appena imboccato lasciando il torrente. La zona è molto umida, il muschio ricopre interamente tutti i tronchi degli alberi. C’è molta acqua che affiora. Dalla cartina dovremmo essere vicini alla meta, certificata anche dalla presenza di un capitello, secondo la legenda. Siamo esattamente sul punto, confermato dal GPS, ma non troviamo alcuna sorgente. Procediamo in un divertente sali-scendi nel sottobosco. Ed improvvisamente ecco una roccia bianca, segnalata da una croce in ferro sulla parte alta. Un segno del CAI e una “X” alla base evidenziano che questa è proprio la sorgente che cerchiamo. Un rivolo di acqua freschissima esce quasi per magia dalla roccia. Un paio di lamine di acciaio conficcate nella terra agevolano lo scorrimento di questa acqua appena nata. Nettamente spostata rispetto alla cartina Tabacco, la sorgente è decisamente più a Nord rispetto alle indicazioni. Ci dissetiamo con questa sorgente benedetta che ci regala nuove forze con un sapore dolce e fresco.
Continuiamo superando una recente frana in cui sorprendentemente troviamo dei bollini su alcuni massi. Torniamo nuovamente sul greto (ormai ho perso il conto delle volte che modifichiamo l’esplorazione passando da sottobosco al torrente). A ritroso è molto più facile individuare i labili segni rimasti e di fatto troviamo vie alternative inedite rispetto all’andata. Appena prima di ritornare all’ampia ansa finale, troviamo a terra un nuovo agglomerato di peli strappati, della stessa preda trovata la mattina. La particolarità è che questi ciuffi sono a centinaia di metri rispetto al “luogo del delitto”, a riprova del trasporto del malcapitato.
La luce comincia a scarseggiare anche se non sono neanche le 15. Lasciamo definitivamente il greto del torrente Vajont e ci accingiamo a raggiungere l’impluvio franoso. Scendere nell’impluvio con la fettuccia e corda ancorate all’albero risulta quasi agevole. La progressione sull’instabile frana, invece, è la parte più caratteristica che richiede un certo tipo di attenzione. Ripercorriamo per l’ultima volta l’esile cengia sospesa nel vuoto, rinominata da Diego la “cengia della morte”, non a caso vista la lapide di un giovane che qui ci ha lasciato la vita. Rivediamo il sole, ritorniamo al cospetto della chiesetta di S. Antonio. Usciamo così dall’ideale “Porta Rossa” di Mauro Corona. Chiudiamo dietro di noi la porta contemplando questi ostacoli naturali che ne proteggono il tesoro che abbiamo appena esplorato.
Si conclude così una magica avventura in questo luogo remoto che lo stesso Mauro Corona descrive così nel suo libro “Le Cinque Porte”: “Entrarono in un mondo fiabesco e silenzioso dove l’unica voce era il sussurrare del torrente” e ancora “Da molti anni la valle era abbandonata. Boscaioli, carbonai e cacciatori non vi andavano più. Troppo lontana, impervia, disagevole”. Un luogo misterioso che deve mantenere intatti i suoi segreti. Un’avventura che ci ha permesso di osservare, in punta di piedi, solo parte di questi tesori nascosti. Tesori che devono essere sicuramente preservati dal turismo di massa per ridare alla Natura il suo spazio che troppo spesso le togliamo senza chiedere il permesso.

Inizio febbraio, le giornate cominciano finalmente ad allungarsi. Mi balza l’idea malsana di ripercorrere una traccia accennata da Mauro Corona nel suo libro “Le Cinque Porte”. Quale miglior compagno potevo scegliere se non Diego per questa esplorazione che ha il sapore selvaggio solo al pensiero. L’obiettivo di oggi è accedere alla remota Val Vajont!
Da non confondere con la Valle del Vajont dove si affacciano i paesi di Erto e Casso. La Valle del Vajont dove ancora rimane un timido laghetto al cospetto del fatidico monte Toc è la, purtroppo, famosa valle che ha impresso nelle nostre menti la tragedia del 9 ottobre del 1963. Più a Nord, prima di arrivare al passo S. Osvaldo, appena superata Erto, sulla destra si insinua una valle angusta, dove il torrente Vajont nasce tra canyon stretti e sinistri: questa è la nostra meta odierna!
Mentre siamo in auto per raggiungere la valle, Diego dopo essersi informato come al solito sull’itinerario che vorremmo affrontare, mi fa salire un po’ di ansia etichettando questa valle come “La valle del Diavolo” per le sue pareti a picco visibili già dalla strada. Non vedo l’ora di partire, ben consapevole che potremmo tornare sui nostri passi ancor prima di cominciare…
Raggiungiamo Longarone, saliamo sui tortuosi tornanti in direzione della diga del Vajont. Casso e poi Erto, fino alla frazione di San Martino con una moderna chiesetta a bordo strada. Poco più avanti, su una curva verso sinistra si può notare una stretta stradina che scende. In corrispondenza di questo bivio, uno spiazzo bordo strada diventa il nostro parcheggio.
Mentre ci prepariamo possiamo già dare uno sguardo verso l’ombrosa val Vajont davanti a noi. La etichetto già “ombrosa” perchè il sole arriva a scaldarci in questa mattinata che è appena sotto lo zero, ma verso l’angusta valle si vede ancora buio e tenebre. Scendiamo sulla via asfaltata che di fatto è la parallela alla strada Statale che solca il versante orografico sinistro del lago del Vajont. Più scendiamo e più la temperatura si abbassa, a lato della strada cominciano a vedersi vere e proprie cascate di ghiaccio. Ora un sottile strato di brina ghiacciata ricopre completamente il manto asfaltato prima dell’imbocco di un breve tunnel. È proprio qui, che alla nostra sinistra, si inerpica una stretta e irta scala (completamente ghiacciata) che indica il sentiero CAI 903 verso la cime del monte Cornet e l’omonima casera. Nessun cenno alla val Vajont o alla Casera Carniar.
Mi allaccio i ramponcini e procediamo sulle scale che ci fanno guadagnare subito del dislivello. Anche al termine delle scalette, l’erba secca che procede in un bosco di faggi mantiene uno strato sdrucciolevole per la spessa brina che la ricopre. In breve arriviamo alla chiesetta di S. Antonio in Therenton in uno splendido balcone naturale con vista su Erto. Qui il bivio con evidente segnaletica CAI con indicazione del vecchio sentiero 901 che porta alla ormai scomparsa Casera Feron. Il percorso è chiaramente segnalato come inagibile, quindi questa relazione non vuole essere in alcun modo un invito a ripercorrere questo itinerario.
La forte e chiara segnaletica ci mette subito in guardia sulle difficoltà che potremmo trovare e rinfranca la definizione di “Valle del Diavolo” coniata da Diego. Procediamo in un sentiero che si stringe sempre di più con fogliame instabile che non permette di capire in modo chiaro dove stiamo mettendo i piedi. I faggi si diradano. Siamo all’ingresso della Val Vajont, possiamo quasi toccare la parete verticale che abbiamo alla nostra destra alla base del monte Zerten. Il torrente impetuoso sotto di noi è quasi silenzioso oltre 200 metri più in basso. Il sentiero cambia il suo volto e diventa una cengia erbosa, esile, sottile, pericolosa. Alla nostra sinistra una parete dritta scappa verso l’alto del monte Cornet, i nostri piedi solcano una traccia non più larga di un metro, a fianco… il nulla: un salto nel vuoto senza appigli verso il turbinoso torrente Vajont visibile anche senza bisogno di sporsi. Procediamo spediti ma attenti ad ogni passo.
Sbuchiamo su un placca rocciosa che si protrae verso un impluvio franoso ampio e scosceso rivolto anch’esso in direzione del torrente. Sulla roccia, prima della frana sassosa, è presente una scritta in rosso “Gefahr”, “Pericolo” in lingua tedesca. Molto probabilmente questa è la difficoltà e la criticità che ha determinato la chiusura dell’intero itinerario da parte del Club Alpino Italiano. Il ghiaione è molto inclinato, non più difficoltoso di molti altri già percorsi. L’unica perplessità è davanti a noi ed è una parete franosa praticamente verticale di 2-3 metri che non ci permette di verificare come procede la traccia. Avvicinandoci, vedo una fettuccia e una corda agganciate ad un albero al culmine della paretina terrosa. Con questi appigli riusciamo a superare agevolmente la problematica. Il sentiero ora continua agevole, in discesa verso il greto del torrente.
Arriviamo così sulle sponde del torrente Vajont, in questo punto calmo e con una portata che occupa solo un terzo del letto. Stiamo per entrare nella immaginaria “Porta Rossa” che Mauro Corona descrive nel suo libro “Le Cinque Porte”. Proprio qui riporta un ricordo d’infanzia dove su questo greto da piccolo andava alla ricerca delle pietre di color fegato, quelle dove la brina non si attaccava. Erano le rocce migliori per poter affilare i coltelli. Anche oggi, in questa giornata molto fredda sono facilmente distinguibili queste particolari pietre. Procediamo in direzione Sud al cospetto delle verticalità del Zerten e del Cornetto.
Rimaniamo attoniti quando troviamo davanti a noi un grosso blocco di ciuffi di pelo grigio scuro strappati a formare quasi un tappeto. I ciuffi di pelo sono strappati di netto visibilmente estratti con un morso chirurgico e molto potente. Poco distante una vera e propria scena di un delitto con rivoli di sangue rappresi, pezzi di ossa, interiora e ancora lo stesso pelo grigio. Non troviamo la carcassa, quindi immaginiamo che la preda sia stata trasportata per essere consumata in un secondo tempo. Il sangue sembra recente, quasi fresco, ma non sappiamo se è stato conservato così bene dalle temperature rigide in questa gola.
Continuiamo in quella che si rivela sempre di più una forra, il sole è ancora un lontano miraggio. Il freddo e l’umido la fanno sempre da padrone. Più avanti intravvediamo qualche tiepido raggio, e aumentiamo il passo per raggiungerli. Il ghiaccio tra gli interstizi di roccia forma delle timide cascatelle immobili e delle più esili stalattiti instabili. Un’ampia ansa verso destra ospita una piccola biforcazione del torrente, la luce filtra e irrora di un giallo paglierino la vegetazione bruna sulle sponde. Il calore ci avvolge per la prima volta nella giornata e ci regala un tepore rigenerante. Ci spostiamo sul versante orografico sinistro del torrente e procediamo ora sul greto, ora sulla balza erbosa che ci accoglie con una traccia del vecchio sentiero oramai quasi completamente cancellato.



Data

04-02-2024

Distanza

14.13 KM

Tipo escursione

Escursione

Dislivello

373 mt

  • Montagna

    Monte Cornet

  • Indirizzo

    Val Vajont, Friuli Venezia Giulia, Italy

  • Altitudine

    873.00 m

  • Rifugi

  • Informazioni

Ci ritroviamo a vagare tra i due versanti del torrente divertendoci a guadarlo nei punti talvolta più agevoli, altre volte invece affondiamo con l’intero scarpone nelle fresche acque impetuose. In corrispondenza di un grosso masso al centro del greto, un sassone di forma cubica tre metri per tre, alle cui spalle notiamo un muretto a secco che sostiene una parete scoscesa erbosa. Anche dalla cartina a nostra disposizione non notiamo alcun tratto o passaggio in quel punto. Molto probabilmente è stato costruito per agevolare il passaggio del torrente e permettere in passato di far scorrere, magari, dei tronchi da portare a valle. Consultando la cartina per questo particolare, vediamo che il sentiero originale passa da un versante all’altro toccando il greto solo in un paio i punti. Puntiamo quindi alla riscoperta della vecchia traccia. Troviamo qualche accenno della vecchia via, anche se sul versante sinistro sembra sia stata cancellata in modo irrimediabile anche da recenti frane che si susseguono. Vicino ad una di queste fa capolino una singolare orma spaventosa che sembra identificare l’impronta posteriore di un orso. Nessun’altra traccia, solo un’unica orma isolata ma tanto basta per farci sussultare.
Passando al versante orografico destro, invece, troviamo delle evidenti tracce del vecchio sentiero che ci fanno salire e lasciare il greto. Sulle cortecce degli alberi si notano ancora i bollini rossi, un po’ sbiaditi ma ci sono. La traccia è chiara, comoda e procede nella boscaglia di larici facendoci guadagnare un lieve dislivello. Ora guardiamo il torrente dall’alto, ci destreggiamo tra loppe erbose e foliage secco. Impluvi franosi fanno capolino saltuariamente ad interrompere una certa monotonia. Anche crepe rocciose, ricoperte da un sottile strato di ghiaccio fortunatamente facilmente superabili, ci permettono di divertirci in questa progressione non banale ma goduriosa. Il bosco lascia spazio ad una porzione erbosa su pendio inclinato. Arriviamo ad un blocco di ghiaccio che ci sbarra la strada. Un blocco unico imponente che si è formato su due tronchi di legno che dovrebbero aiutare a superare un tratto franato del sentiero con un vuoto di qualche decina di metri sotto. Vediamo che dentro il possente blocco di ghiaccio è presente anche un cordino, ma è inglobato nella massa e di fatto inutilizzabile. Decidiamo quindi di interrompere qui la nostra avventura senza rischiare di superare questo pericoloso ostacolo.
Torniamo sui nostri passi e, buttando l’occhio sulla sinistra, notiamo una traccia appena accennata che scende in un punto dove numerosi alberi dall’esile fusto creano una via di discesa molto ben segnata da bollini rossi, che porta verso il torrente. Scendiamo quindi così nel greto, nuovamente, e notiamo che i segni continuano su grosse rocce che affiancano il corso d’acqua. Proseguiamo in direzione Sud verso la casera Carniar sul greto agevole. Ai lati osserviamo le cascate di ghiaccio più imponenti della giornata: alte, spesse e fragili dove in pochi minuti abbiamo visto piccoli blocchi staccarsi dall’alto senza, per fortuna, colpirci.
È l’una e mezza del pomeriggio, ma nella gola in cui ci troviamo sembra pomeriggio inoltrato. La luce sta per scomparire dietro al Col Nudo. Guardiamo la cartina e vediamo che ci mancano qualche centinaio di metri per raggiungere la casera Carniar, ma la luce potrebbe essere poca al ritorno. Ci fermiamo così per una pausa che ancora non avevamo fatto dall’inizio dell’escursione, e ammiriamo questo paradiso perduto.
Torniamo indietro dalla stessa via di andata, cercando le tracce rimanenti di segnaletica del vecchio sentiero CAI. Nel bosco, una volta lasciato il greto, ci imbattiamo in una roccia possente dove al suo culmine in alto, c’è una croce in ferro battuto molto vecchia. Forse addirittura di inizio secolo. La croce è così particolare che sembra una spada nella roccia: perfettamente infilata nella roccia. Non sono visibili segni di scalpellate o forature. Il blocco roccioso è a pochi passi da una distesa di sassi muschiati disposti in modo regolare, come a formare un perimetro rettangolare. Siamo davanti, molto probabilmente, ad una vecchia casera con il ricordo del suo proprietario.
Troviamo molte tracce che evidenziano diversi guadi del corso d’acqua da parte a parte. Il nostro ultimo obiettivo di giornata è una sorgente segnata sulla cartine Tabacco: “La sorgente dell’acqua Benedetta”. Dovremmo trovarla nel versante orografico destro che abbiamo appena imboccato lasciando il torrente. La zona è molto umida, il muschio ricopre interamente tutti i tronchi degli alberi. C’è molta acqua che affiora. Dalla cartina dovremmo essere vicini alla meta, certificata anche dalla presenza di un capitello, secondo la legenda. Siamo esattamente sul punto, confermato dal GPS, ma non troviamo alcuna sorgente. Procediamo in un divertente sali-scendi nel sottobosco. Ed improvvisamente ecco una roccia bianca, segnalata da una croce in ferro sulla parte alta. Un segno del CAI e una “X” alla base evidenziano che questa è proprio la sorgente che cerchiamo. Un rivolo di acqua freschissima esce quasi per magia dalla roccia. Un paio di lamine di acciaio conficcate nella terra agevolano lo scorrimento di questa acqua appena nata. Nettamente spostata rispetto alla cartina Tabacco, la sorgente è decisamente più a Nord rispetto alle indicazioni. Ci dissetiamo con questa sorgente benedetta che ci regala nuove forze con un sapore dolce e fresco.
Continuiamo superando una recente frana in cui sorprendentemente troviamo dei bollini su alcuni massi. Torniamo nuovamente sul greto (ormai ho perso il conto delle volte che modifichiamo l’esplorazione passando da sottobosco al torrente). A ritroso è molto più facile individuare i labili segni rimasti e di fatto troviamo vie alternative inedite rispetto all’andata. Appena prima di ritornare all’ampia ansa finale, troviamo a terra un nuovo agglomerato di peli strappati, della stessa preda trovata la mattina. La particolarità è che questi ciuffi sono a centinaia di metri rispetto al “luogo del delitto”, a riprova del trasporto del malcapitato.
La luce comincia a scarseggiare anche se non sono neanche le 15. Lasciamo definitivamente il greto del torrente Vajont e ci accingiamo a raggiungere l’impluvio franoso. Scendere nell’impluvio con la fettuccia e corda ancorate all’albero risulta quasi agevole. La progressione sull’instabile frana, invece, è la parte più caratteristica che richiede un certo tipo di attenzione. Ripercorriamo per l’ultima volta l’esile cengia sospesa nel vuoto, rinominata da Diego la “cengia della morte”, non a caso vista la lapide di un giovane che qui ci ha lasciato la vita. Rivediamo il sole, ritorniamo al cospetto della chiesetta di S. Antonio. Usciamo così dall’ideale “Porta Rossa” di Mauro Corona. Chiudiamo dietro di noi la porta contemplando questi ostacoli naturali che ne proteggono il tesoro che abbiamo appena esplorato.
Si conclude così una magica avventura in questo luogo remoto che lo stesso Mauro Corona descrive così nel suo libro “Le Cinque Porte”: “Entrarono in un mondo fiabesco e silenzioso dove l’unica voce era il sussurrare del torrente” e ancora “Da molti anni la valle era abbandonata. Boscaioli, carbonai e cacciatori non vi andavano più. Troppo lontana, impervia, disagevole”. Un luogo misterioso che deve mantenere intatti i suoi segreti. Un’avventura che ci ha permesso di osservare, in punta di piedi, solo parte di questi tesori nascosti. Tesori che devono essere sicuramente preservati dal turismo di massa per ridare alla Natura il suo spazio che troppo spesso le togliamo senza chiedere il permesso.




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